L’anno del pensiero magico

“Nella versione del dolore che immaginiamo, il modello sarà la guarigione. Prevarrà un certo movimento in avanti. I giorni peggiori saranno i primi. Si immagina che il momento più difficile sarà il funerale, dopodiché avrà luogo questa ipotetica guarigione “.

È un resoconto ossessivo degli ultimi attimi di vita di suo marito John. Parole ricalcate con forza che si fanno spazio tra la sofferenza e i ricordi. “Ci sforziamo di impedire ai morti di morire per tenerli ancora con noi”.
“Il dolore arriva ad ondate, ti accecano e cancellano la quotidianità della vita”.
Per la Didion la morte improvvisa del marito non rappresenta la fine della loro storia, non inizialmente. Le scarpe di John rimangono lì, in attesa che lui ritorni.
“Avrebbe avuto bisogno di scarpe se doveva tornare”. Quindi, doveva tornare.
La roba, tutto rimane sospeso, in attesa.
“Ma tutto questo non lo ha fatto tornare indietro”.
Il suo romanzo è un resoconto claustrofobico e terribile, ma è anche la storia del suo matrimonio e dell’amore per il suo compagno. Profondamente legati, dipendenti l’uno dall’altro, senza colpa, solo per amore.
È vero, certe tendenze esistono o sono esistite. Come quella di vedere il lutto come qualcosa da nascondere per non disturbare le esistenze degli altri, un modo crudele di trattare la mancanza come cosa astratta. Mentre il lutto è reale, è palpabile come assenza incolmabile.
La Didion scrive con autenticità, scrive di qualcosa che conosce bene, del dolore, del rimanere soli.
Credo che avesse bisogno di appuntare date e orari.
Un bisogno che non stanca. E che non ha stancato neanche me.
Luna